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La possibilità da parte di un professionista senza dipendenti di acquistare buoni pasto e utilizzarli per consumare i pasti “lavorativi” è tema, ad oggi, poco analizzato sulle riviste specializzate, ma molto dibattuto sui forum e sui blog professionali. La ragione dell’interesse pratico alla questione è abbastanza semplice: con l’acquisto dei buoni pasto il professionista si semplifica la gestione amministrativa delle spese relative alla somministrazione di alimenti e bevande, evitando la registrazione di fatture di pochi euro, a meno di “convenzioni” con gli esercenti. Le perplessità maggiori in ordine alla deducibilità di tali costi nascono dalla normativa speciale che regola i servizi sostitutivi di mensa: in tale provvedimento si afferma che i buoni pasto sono utilizzati, durante la giornata lavorativa, esclusivamente dai prestatori di lavoro subordinato a tempo pieno o parziale, nonché dai soggetti che hanno instaurato con il cliente un rapporto di collaborazione anche non subordinato.
Non dovrebbero esservi dubbi sul fatto che i buoni pasto costituiscono documenti di legittimazione ex art. 2002 del c.c., vale a dire documenti che servono ad identificare l’avente diritto alla prestazione, in questo caso il diritto di ottenere da esercizi convenzionati la somministrazione di alimenti e bevande. In tale prospettiva, la fattura ricevuta dalla società che emette i buoni pasto assolve in modo efficace gli obblighi di documentazione dei componenti negativi di reddito richiesta dall’art. 54 del TUIR (implicitamente) e dalla disciplina IVA.
Pertanto, pur con l’incertezza sopra descritta, i predetti costi dovrebbero essere deducibili dai professionisti senza dipendenti nei limiti previsti dall’art. 54 comma 5 del TUIR, vale a dire al 75% e per un importo non superiore al 2% dei compensi percepiti nel periodo d’imposta.
Fonte: www.eutekne.it
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